Posts tagged ricerca scientifica

Notte blu della ricerca

Sabato 8 e domenica 9 maggio alla Casa della Creatività in Vicolo di Santa Maria Maggiore (a due passi dal Duomo) a Firenze c’è la

Notte blu della ricerca: 27 ore non stop di musica, film, discussioni, conferenze sulla ricerca e i problemi che i tagli dei fondi le stanno creando.

A questo link il sito con tutte le iniziative; potete anche scaricare il programma in .pdf da qui:  notteblu

Riportiamo la presentazione della inizitiva dal sito di Notteblu.

L’associazione culturale Caffè-Scienza, il coordinamento ricercatori dell’Uiversità di Firenze e alcuni ricercatori dell’area del CNR di Firenze, in occasione della festa dell’Europa, il 9 maggio 2010, promuovono la “notte blu della ricerca”, una non-stop di 27 ore (il numero dei paesi dell’Unione Europea) sulla ricerca a Firenze, in Italia ed in Europa.

Dalle 15:00 dell’8 maggio alle 18:00 del 9, alla Casa della Creatività, in vicolo di Santa Maria Maggiore, 1 50123 Firenze

La festa si inserisce nel quadro delle manifestazioni della notte blu – l’Europa in 27 ore, festa dell’Europa organizzata dal Comune di Firenze, ufficio Direct Europe. Si avvale inoltre del supporto dell’assessorato all’Università del Comune di Firenze.

Durante la manifestazione ci saranno seminari divulgativi e discussioni.

In apertura, la presentazione del libro “I ricercatori non crescono sugli alberi“, di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi (Laterza 2010); durante la kermesse ci sarà un caffescienza su “Ricerca ed Università in Europa: l’Italia è una eccezione?”, con collegamenti con altri caffescienza in tutta Europa (progetto SciCafé della UE, FP7-SiS) e la presentazione della ricerca sui flussi migratori dei ricercatori promossa dal Centro per lo Studio
di Dinamiche Complesse
, Università di Firenze. Il caffescienza si inquadra nel progetto UE SciCafé (FP7-SiS).

Alla fine, premiazione degli “eroi della ricerca”: gli impavidi che saranno riusciti a raccogliere gli autografi di tutti gli oratori (e magari a prendere appunti…).

Il blu è il colore dell’Europa, ma anche quello degli ematomi. Sta a noi scegliere quale di questi due significati associare alla parola “ricerca”.

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Pannelli nel Sahara di Desertec e l’ Ambizione Verde Mediterranea

Ci sono idee, progetti che certe volte riescono a prefigurare il nuovo mondo. Desertec – l’ impresa che vuole produrre enormi quantità di energia nel deserto del Sahara per poi trasportarla in buona parte in Europa – potrebbe essere una di queste. Ieri, l’ italiana Enel ha annunciato di essere diventata partner dell’ iniziativa, che è stata lanciata l’ anno scorso da una serie di grandi assicurazioni, banche e industrie tedesche e che ora cerca di coinvolgere partner internazionali. L’ investimento complessivo è enorme, 400 miliardi di euro. E anche il risultato potrebbe essere gigantesco: il 15% delle esigenze energetiche europee coperte da questa fonte di energia rinnovabile (solare, cioè pannelli disposti come sedie a sdraio sulla sabbia, ma anche eolico) forse già entro la fine del decennio. Assieme a Enel Green Power, dunque, ieri sono entrate in Desertec Industrial Initiative anche un’ impresa spagnola, una francese e una marocchina. Una della Tunisia potrebbe aderire a breve. Che l’ Enel abbia colto l’ opportunità di un progetto gigantesco – per quanto non facile da realizzare per ragioni tecniche e geopolitiche – è il segno di come l’ azienda italiana sia diventata uno dei grandi protagonisti, e tra i più dinamici, dell’ industria energetica internazionale. Già numero uno mondiale nell’ abbattimento delle emissioni di gas serra nei Paesi in via di sviluppo. L’ importanza di Desertec, però, va oltre le dimensioni del progetto. L’ ambizione innovativa – e sorprendente – mostrata dai tedeschi sta infatti nel superamento concreto della «filosofia di Kyoto», cioè di quella strategia tutta e solo fondata su tagli, oggi economicamente insopportabili, alle emissioni di anidride carbonica. Strategia che si è arenata alla Conferenza di Copenaghen lo scorso dicembre. Quello che Desertec – e l’ ispiratrice Munich Re, e Deutsche Bank, Siemens, Rwe, E.On, Saint-Gobain e ora anche Enel – racconta è che le energie rinnovabili possono probabilmente essere la risposta al surriscaldamento del pianeta, se si è davvero disposti a investirci. Se funziona, tagliare le emissioni nocive sarà molto, molto meno costoso.

Taino Danilo

Pagina 42
(23 marzo 2010) – Corriere della Sera

Chiara P. III D

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Meno carne per non avere fame

Mangiare meno carne potrebbe essere la soluzione alla fame nel mondo. La rinuncia a bistecche e cotolette nei Paesi sviluppati può spingere gli allevatori a diminuire il numero di animali da macello, cedendo all’ agricoltura i terreni dedicati al pascolo e alla produzione di mangime. Conseguenza: più grano e cereali per tutti. Oggi l’ 80% del terreno mondiale è utilizzato direttamente o indirettamente dalla zootecnia. Con una resa piuttosto bassa: l’ allevamento produce il 15% delle calorie totali. Senza contare che il bestiame incide sull’ effetto serra: i bovini emettono metano e il loro mantenimento genera molta anidride carbonica. Secondo alcuni ricercatori con una dieta settimanale «low meat» (70 grammi di manzo e 325 grammi di pollo/uova) si liberano 15 milioni di chilometri quadrati di campi coltivabili e si abbattono due terzi delle emissioni di CO2 entro il 2050. Ma non tutti sono d’ accordo con questa teoria. Marc Rosegrant dell’ International Food Policy Research Institute di Washington ha usato modelli simulati per capire se dimezzare la carne risolve i problemi di ecosostenibilità e divario alimentare. La sua conclusione è stata negativa. Per Rosegrant il minor consumo di carne nei Paesi ricchi avrebbe come effetto quello di abbassare i prezzi, rendendo questo alimento accessibile ai Paesi poveri che ne approfitterebbero per acquistarlo. Insomma, quello che togli da una parte, sbuca dall’ altra. E il ciclo si ripete. P. Car.

Caruso Paola

Pagina 30
(23 marzo 2010) – Corriere della Sera

Chiara P. III D

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Riciclare l’acciaio e l’alluminio aiuta le industrie e l’ambiente

Repubblica — 22 marzo 2010   pagina 42   sezione: AFFARI FINANZA

Le rinnovabili sono la via maestra per la produzione di nuova energia, ma nel breve periodo la fonte più interessante dal punto di vista economico resta il taglio degli sprechi. E gli sprechi sono tanti visto che per due secoli il sistema industriale si è tarato sull’ illusione di poter trovare un’ energia sostanzialmente infinita e a basso prezzo. Ora l’ ultimo erede di questa teoria fallimentare, il petrolio, si avvia al capolinea lasciando dietro di sé una scia di devastazione climatica e una forte instabilità dei prezzi. A questo punto in molti settori produttivi è scattata la molla della riconversione green, anche perché risparmio energetico e risparmio economico tendono a coincidere. La direttiva europea nel campo dell’ imballaggio ha spinto in questa direzione e molte industrie del settore – sul modello della carta e del vetro, i primi a puntare sugli aspetti ambientali del recupero – stanno scommettendo sul miglioramento delle prestazioni ambientali. L’ ultimo studio è dell’ Anfima, l’ Associazione nazionale dei fabbricanti di imballaggi metallici che raggruppa la maggior parte delle 50 aziende del comparto (5 mila dipendenti, 1,8 miliardi di euro di fatturato) ed è collegata al Cna (Consorzio nazionale per il riciclo e il recupero degli imballaggi in acciaio) e al Cial (il consorzio per l’ alluminio). Quando si pensa all’ acciaio scatta immediatamente l’ associazione con le armi, ma negli ultimi 200 anni, da quando esiste l’ imballaggio in acciaio, molte guerre sono state vinte con l’ acciaio delle scatolette alimentari che permettevano ai soldati di sopravvivere più che con l’ acciaio dei cannoni. In assenza di guerre, quello che conta è la capacità di produrre di più usando meno materiali e meno energia. «Da questo punto di vista abbiamo fatto molta strada», spiega Rosolino Redaelli, presidente di Anfima. «L’ acciaio ha scelto la sostenibilità puntando con forza sulla diminuzione delle quantità di materiale usato nelle singole confezioni e sulla diminuzione dei consumi energetici grazie a un sistematico recupero degli imballaggi che ci vede oggi nella parte alta della classifica europea. Tra l’ altro abbiamo la fortuna di lavorare con un materiale che si può riciclare all’ infinito e che, ad ogni ciclo virtuoso, garantisce un vantaggio per la singola industria e per la collettività: sarebbe sciocco non approfittarne». All’ apparenza le scatolette che acquistiamo al supermercato sono sempre le stesse, sostanzialmente immutate da decenni anche perché l’ acciaio, materiale piuttosto essenziale, si presta meno di altri al restyling estetico. Eppure le modifiche introdotte sono state consistenti: basta pensare che, nel caso del classico barattolo da mezzo chilo, in otto anni è stata realizzata una drastica cura dimagrante che ne ha dimezzato il peso. Un processo che ha portato significativi vantaggi ambientali perché per ogni tonnellata di acciaio riciclato si tagliano i consumi energetici del 70 per cento risparmiando 1.8 tonnellate di minerali di ferro, 572 litri di petrolio e 1,8 tonnellate di CO2: quella emessa da un’ utilitaria che fa 15 mila chilometri o quella catturata in un anno di crescita da 98 alberi della foresta pluviale. Un beneficio che va moltiplicato per le oltre 370 mila tonnellate riciclate (il 77,5 per cento del recuperato, più dell’ obiettivo europeo): una quantità che permetterebbe di coprire con una lamiera spessa come quella di una scatola di pelati una superficie pari a 4,5 volte l’ estensione di una città come Roma evitando la C02 emessa in un anno da 260 mila auto di piccola cilindrata. Anche le cifre dell’ alluminio sono consistenti: il 64 per cento viene recuperato e il 58 per cento (38.500 tonnellate) riciclato. In questo modo si evitano quasi 400 mila tonnellate di CO2 e si risparmia l’ energia contenuta in 140 mila tonnellate di petrolio. L’ alluminio poi ha un secondo legame con l’ energia. Almeco, un colosso da 100 milioni di euro con stabilimenti in Italia, Francia e Germania, ha prodotto un particolare alluminio con capacità riflettenti che raggiungono il 98 per cento: può essere utilizzato nel solare termodinamico. (a. c.)

Chiara P. III D

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Articolo da Repubblica

Le foreste riprendono fiato, ma metà pianeta è a rischio

I dati di uno studio Fao: diminuisce la deforestazione, anche se ogni anni sparisce un’area grande quanto la Grecia. Ma l’erosione viaggia a ritmi ancora alti: a farne le spese soprattutto America del Sud e Africa, in rosso pure l’Oceania di ANTONIO CIANCIULLO

Le foreste riprendono fiato ma metà pianeta è a rischio Una ruspa nella foresta amazzonica

LA buona notizia è che la deforestazione è diminuita. La cattiva notizia è che si mangia ancora ogni anno una superficie grande quanto la Grecia. Negli anni Novanta sparivano 16 milioni di ettari di alberi all’anno, nel primo decennio del nuovo secolo si è scesi a 13 milioni. Sono le cifre contenute nel rapporto che la Fao ha appena reso pubblico: uno studio condotto ogni cinque anni che ha utilizzato il contributo di 900 specialisti in 178 paesi.

Il mantello verde del pianeta, fino a qualche decennio fa ancora dominante, si è progressivamente ristretto fino ad arroccarsi sul 31 per cento delle terre emerse. Ma questo dato, come tutti quelle precedenti, è destinato a essere rapidamente superato da un’erosione che continua a viaggiare a ritmi alti. Le perdite maggiori si sono registrate in America del Sud (4 milioni di ettari) e in Africa (3,4 milioni di ettari). In rosso anche l’Oceania, dove si continua a pagare lo scotto di un terribile periodo di siccità che ha colpito l’intero decennio. L’Asia invece ha i bilanci in positivo grazie a alla politica di rimboschimento sostenuta da Cina, India e Vietnam, anche se l’attacco alle foreste primarie non si è fermato. Stabile l’America del Centro Nord e in crescita la quota verde dell’Europa.

Il giudizio di Eduardo Rojas, vicedirettore della Fao è complessivamente positivo: “Per la prima volta il tasso di deforestazione mondiale sta scendendo grazie a sforzi condotti sia a livello internazionale che locale. I paesi non hanno solo migliorato le loro politiche di utilizzo delle foreste ma ne hanno anche assegnato l’uso alle popolazioni locali. Il tasso di deforestazione resta comunque alto e gli sforzi vanno raddoppiati”.

In particolare vanno salvaguardate le foreste primarie, quelle non ancora intaccate, che costituiscono la roccaforte della biodiversità terrestre: oggi rappresentano il 36 per cento delle foreste totali ma hanno perso 40 milioni di ettari in 10 anni a causa del degrado, del taglio e della riconversione a usi agricoli. L’altro caposaldo della conservazione sono i boschi della rete dei parchi che dal 1990 è cresciuta di 94 milioni di ettari raggiungendo il 13 per cento della superficie complessiva delle foreste.

Nonostante il leggero miglioramento, la situazione dunque resta preoccupante. Gli incendi e gli attacchi dei parassiti colpiscono ogni anno l’1 per cento delle foreste. E, in assenza di un valido piano di intervento, il dato è destinato ad aggravarsi a causa dei cambiamenti climatici che stanno alterando il ciclo idrico. La deforestazione a sua volta accelera il processo del cambiamento climatico: a livello globale si calcola che nel periodo 2000 – 2010 lo stock di carbonio contenuto nella biomassa delle foreste si sia ridotto di 500 milioni di tonnellate.

Repubblica (25 marzo 2010)
Chiara P. III D

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Articolo da Repubblica

Grazie ai potabilizzatori lowcost l’acqua pura non è più un miraggio

Repubblica — 15 marzo 2010   pagina 25   sezione: AFFARI FINANZA

Durante l’ Esodo il popolo israelita, esaurite le scorte d’ acqua, si accampò sulle sponde di un lago ma non gli fu possibile attingere acqua perché era amara. Mosé allora gettò nelle acque un arbusto che le rese bevibili. Ora si scopre che il miracolo biblico aveva un fondamento scientifico nelle proprietà di un albero coltivato in Africa e Asia, la moringa oleifera i cui semi macinati, solubili in acqua, riescono a ridurne la torbidità ed eliminare con un’ efficienza oltre il 90% i batteri. A scoprire questo cloro naturale è stato Michael Lea, ricercatore della canadese Clearinghouse, impegnata nello sviluppo di sistemi lowcost per il trattamento delle acque. Questa pianta resiste bene alla siccità e i semi servono alla potabilizzazione: sebbene il protocollo messo a punto da Lea (libero da copyright e scaricabile dal web) non è sicuro al 100% come riconosce lo stesso autore, è un passo avanti propagandare la riscoperta di questo sapere tradizionale. Oggi l’ acqua manca o è contaminata per almeno 2 miliardi di persone che non possono permettersi costosi impianti di depurazione. Ma ora grazie ai progressi tecnologici e della ricerca scientifica sta arrivando tutta una serie di sistemi, alcuni semplici come quello che si è visto ma altri legati a macchinari sofisticati e miniaturizzati. Vediamo alcuni esempi, cominciando dal più semplice: per disinfettare l’ acqua sfruttando l’ energia del sole, secondo l’ Ewag, istituto svizzero per le scienze e tecnologie ambientali, basta mettere in una bottiglia di plastica trasparente l’ acqua contaminata ed esporla al sole per 6 ore: la sinergia delle radiazioni Uva e l’ elevata temperatura causa la distruzione di diversi batteri tra cui quelli di colera, epatite, tifo. Evoluzione di questo concetto è la tanica “Solvatten” sviluppata dalla svedese Petra Wadstrom che sfrutta la combinazione di radiazioni e calore per disinfettare l’ acqua. L’ apparecchio contiene 10 litri di acqua, si sdoppia in due recipienti rettangolari aprendosi a libro e si espone al sole. Le pareti rivolte al sole sono di plastica trasparente permeabili ai raggi mentre quelle opposte sono nere per assorbire i raggi. Un sensore Lcd inserito sulla parete esterna indica quando si sono raggiunti 60° (dopo circa 3 ore). L’ acqua viene inserita da un’ apertura dotata di filtro e dopo la purificazione viene versata da un’ altra apertura con un altro filtro amovibile. Ultravioletti anche per RayWox dell’ azienda tedesca Kako, produttrice di inverter”, le apparecchiature elettromeccaniche che trasformano la corrente da continua ad alternata. RayWox è uno sviluppo della tecnologia fotocatalitica di purificazione delle acque industriali. L’ elemento centrale è un ricevitore solare che ricava dall’ irradiazione l’ energia necessaria ad attivare il processo per ossidare e decomporre gli inquinanti. Si usa come semiconduttore il biossido di titanio. L’ acqua contaminata addizionata con i fotocatalizzatori attraversa il tubo di un vetro speciale: il sofisticato comando adatta esattamente la velocità del flusso alla potenza solare irradiata al momento. In caso di scarsa irradiazione la velocità viene ridotta fino a quando l’ acqua non raggiunge il grado di purezza desiderato. Anche le pompe che alimentano la movimentazione dell’ acqua sono attivate da energia solare. Il sistema è in grado di purificare circa 4500 litri d’ acqua in 2/3 ore. La tecnologia interviene anche dove non c’ è un’ emergenza idrica: in Italia, dove l’ acqua del rubinetto è accettabile, rimane il problema della sua gradevolezza che apre il lucroso mercato dei filtri domestici: a carboni attivi, a scambio ionico, a osmosi inversa. Questi possono correggere il sapore di cloro o eliminare le tracce di alcuni inquinanti. Il più affidabile è quello a osmosi inversa: l’ acqua è forzatamente condotta, alzandone la pressione, attraverso una membrana semipermeabile che impedisce il passaggio di buona parte di altre sostanze disciolte nell’ acqua: elimina i metalli pesanti, i nitrati e altri componenti indesiderati. L’ apparecchio separa l’ acqua in due flussi: da una parte l’ acqua purificata, dall’ altra quella scartata ricca di sali minerali. L’ innovazione si è spinta anche ad estrarre acqua dall’ umidità dell’ aria, una procedura che simula la creazione della rugiada e utilizza energie rinnovabili come solare e biomasse. Un chilometro cubo di aria contiene da 10 a 40mila tonnellate d’ acqua, abbastanza per rifornire almeno 100mila persone per tutte le loro necessità idriche. L’ impianto sviluppato dalla israeliana Ewa (Earth Water Air), ha tre fasi di lavorazione. Si pompa aria dall’ esterno in un contenitore dove c’ è un essiccante solido (gel di silicio) che ne cattura l’ umidità, dopodiché si ripassa su questo essiccante una corrente di aria molto calda che tira fuori un flusso di aria denso di umidità, infine questo viene passato in un condensatore a risparmio di energia. Il procedimento permette di produrre fino a 1000 metri cubi d’ acqua al giorno al costo di circa mezzo dollaro al litro. Quanto alla desalinizzazione, un problema è l’ energia che richiede. Si pensi che i rifornimenti di acqua potabile ad Haiti sono assicurati dai due reattori nucleari a propulsione di una portaerei americana. La Oasys, startup di due ricercatori di Yale, ha raccolto 10 milioni di dollari per finanziare una tecnologia che, promettono, userà un decimo dell’ energia necessaria con i metodi tradizionali: una soluzione di sali di ammonio facilita il processo di osmosi e permette di eliminare la necessità di sottoporre l’ acqua ad alta pressione. Dopo il filtraggio, l’ acqua dissalata è liberata dai sali di ammonio attraverso il riscaldamento, che poi però sono recuperati convertiti in vapore. Per ridurre ulteriormente il costo energetico, si può usare quando possibile il calore di scarto da una centrale termica. – PATRIZIA FELETIG

Chiara P. III D

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OGM

La ricerca scientifica degli organismi geneticamente modificati sta a cuore all’opinione pubblica perché riguarda tutti molto da vicino.
Ci sono tantissimi articoli, relazioni, scritti, scientifici e non, che trattano l’argomento positivamente e ce ne sono altrettanti che si rifiutano di vedere gli organismi GM di buon occhio.
Vorrei ricordare qui alcuni degli aspetti negativi della ricerca e della coltivazione di organismi ingegnerizzati, aspetti che magari non sono sempre presi in esame (perché altrimenti si rischia di ripetere sempre le stesse cose!).
Giorni fa mi sono domandato se e perché sia necessario studiare, o meglio inventare nuove piante.
Una delle ragioni (che poco tempo fa rimaneva un’utopia) è che coltivazioni di organismi geneticamente modificati promettono raccolti più abbondanti in condizioni non troppo favorevoli come in zone molto siccitose, soggette a problemi periodici, o con terreni poveri di sostanze nutritive.
L’occidente non ha di questi problemi, fortunatamente possiamo dire di provvedere al nostro fabbisogno coltivando il terreno che abbiamo in casa. Allora non è per il nostro fabbisogno che si spendono soldi per la ricerca di ingegneria genetica? Evidentemente no. Si dice che le piante GM potranno essere coltivate in zone povere come l’Africa e così sfamarne la popolazione. Sarebbe una salvezza per quasi un milione di persone che abotano il continente. Ma questo di fatto vuol dire anche esportare il metodo “occidentale” di far agricoltura (meccanizzazione, concimi chimici eccetera). Si potrebbe pensare di avere l’occasione di liberare gli uomini dal lavoro schiavizzante della terra e, in effetti, in Europa la meccanizzazione ha fatto sì che solo il 10% della popolazione oggigiorno debba dedicarsi alla coltivazione diretta, il restante 90% ha “diversificato” il proprio impiego. Ma guardiamo più attentamente la situazione: per fornire di alimenti l’intera società, si deve garantire un complesso sistema di approvvigionamento che comprende autisti, autotreni, commessi di negozio, scienziati agrari, confezionatori, operai di industrie alimentari, impiegati in uffici di controllo vendite e moltisimi altri. Affermare quindi che abbiamo delle occupazioni più diversificate rispetto ai nostri avi non ha senso se tutti sono lì imprigionati nel loro ruolo. La divisione delle forniture alimentari in molte occupazioni specializzate non ci libera dal lavoro disumano a livello personale, né ci dà la possibilità di contribuire in modo significativo o creativo ad una evoluzione reale.
C’è un altro aspetto che non mi convince degli OGM. Piante ingegnerizzate sono orgnismi del tutto nuovi e non possiamo conoscerne pienamente la risposta pur conoscendo gli stimoli. Come possiamo star certi che in un particolare habitat, diverso da quello di laboratorio, la pianta dia i risultati studiati a tavolino? E non scordiamoci del fatto che i geni per esempio di resistenza ad una malattia potrebbero facilmente essere trasferiti a piante spontanee.
Forse prima di arrovellarci su problemi di difficile comprensione come quelli della vita (seppur si parli di piante) per poter veramente aiutare il sud del mondo dovremmo iniziare a ridimensionare il nostro stile di vita e così metterlo in discussione. Una volta conosciuti i nostri limiti, potremo aiutare gli altri nostri simili senza cadere nell’ipocrisia.
Finisco citando un passo dal libro “La rivoluzione del filo di paglia” del giapponese Fukuoka: lo scienziato “sta immerso nei libri notte e giorno, sforzando gli occhi e diventando miope, e se domandiamo che lavoro ha fatto in tutto quel tempo: ha inventato degli occhiali per correggere la miopia”.
Senza scordarci che la ricerca, la curiosità di capire com’è fatto il mondo, è uno degli elementi vivificatori della nostra esistenza.

Leonardo B. – muschiomo

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Incontro con la LAV

Venerdì 18 al liceo scientifico Leonardo da Vinci in aula di “fisica grande” si è tenuto l’incontro del gruppo ambiente con due esponenti della LAV.
Vista l’imminente fine del trimestre e i numerosi compiti in classe, interrogazioni e quant’altro, i membri delle Chimere non erano più di una ventina.
Per chi era interessato, ma non è potuto venire, ecco qui sotto un resoconto di ciò che è stato detto.
Le invitate hanno proiettato un filmato, girato in collaborazione con degli studenti universitari, che denuncia la legalità nonché l’assurdità della sperimentazione animale ai fini della ricerca. In una prima parte il filmato mostra a quali esperimenti vengano sottoposti gli animali, in seguito sono stati esposti i metodi di ricerca “alternativi” o, a dir meglio, sostitutivi.
Per motivi tecnici non si è potuto finire di vedere la proiezione quindi sono state integrate a voce le informazioni mancanti: principalmente è stato spiegato perché è controproducente utilizzare animali per la ricerca e sono stati forniti alcuni dati sulla ricerca scientifica in Italia (basti pensare che il 30% di questa si fa usando come cavie topi, gatti, cani, primati, conigli, uccelli, tartarughe…).
Inoltre è stato aggiunto un “dettaglio” non poco prezioso. Considerando il fatto che la ricerca, in Italia come nel resto dell’occidente, è profondamente radicata nella cultura e nella tradizione universitaria, noi italiani, e ancor di più i futuri studenti universitari, abbiamo il dovere di riflettere sull’impronta che lasciamo con le nostre azioni. A questo proposito è importante tener presente la legge 413/93 sull’obiezione di coscienza.
Da parte nostra non ci sono state moltissime domande e quindi l’argomento non è stato approfondito. Ho chiesto per interesse personale se la Lav si tiene in contatto e collabora con altre associazioni animaliste europee e mondiali, la risposta è ovviamente affermativa. Alcune manifestazioni che si sono svolte e che si svolgeranno in Europa si devono alla cooperazione delle varie associazioni.
Con questo spero di essere stato utile e spero di aprire una discussione su un argomento molto delicato ma incombente, che sul piano etico riguarda i diritti degli animali, ma riguarda anche gli esiti della ricerca scientifica ed in particolare della ricerca medico-farmaceutica. E’ in ballo la nostra salute.

Leonardo B. – muschiomo

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